giovedì 19 marzo 2015

LA VERA STORIA DELLA SPEDIZIONE DEI MILLE

                                                            
Soltanto i libri di testo delle nostre scuole raccontano, come in un film d’avventura, l’epopea di mille uomini armati alla leggera che, senza artiglieria, senza mezzi di trasporto, con un solo sacco sulle spalle e un moschetto a tracolla, conquistarono un regno di circa dieci milioni di abitanti, difeso da un esercito composto da 120 mila soldati. E’ ovvio che si tratta di una ricostruzione fantasiosa e che senza l’aiuto degli Inglesi i garibaldini non sarebbero neppure sbarcati in Sicilia. Quando Garibaldi arrivò a Marsala il lavoro era già fatto, gli accordi siglati, le mafie all'opera, l'esercito corrotto, i baroni pronti al tradimento, le ricompense pattuite, i futuri ruoli assegnati. Non vi era niente di nuovo sotto il sole, si trattava degli stessi metodi che si usano oggi in molte aree del mondo. La presenza inglese in Sicilia era dovuta principalmente al controllo della produzione dello zolfo, di cui l’isola era ricca, poiché  produceva i quattro quinti della produzione mondiale. Lo zolfo era l’ingrediente fondamentale per la produzione della polvere da sparo,  era indispensabile per produrre la soda e l’acido solforico ed aveva all’epoca la stessa importanza che hanno oggi l’uranio e i petrolio. Prima del 1836 la produzione siciliana dello zolfo  era gestita prevalentemente da cittadini inglesi. Ritenendo svantaggiose le condizioni economiche della concessione assegnata agli inglesi Ferdinando II affidò  lo sfruttamento delle zolfare ad una ditta francese, la Taix & Aycard di Marsiglia, la quale si impegnò a versare 400.000 ducati annui al governo borbonico. Il ministro Palmerston fece recapitare a Ferdinando II una nota minacciosa, che mandò quest'ultimo su tutte le furie. Dopo lunghe schermaglie diplomatiche, nel 1840 la Gran Bretagna inviò una flotta navale nel golfo di Napoli con l'ordine di bloccare le navi battenti bandiera delle Due Sicilie. Ferdinando II rispose ordinando l'embargo contro tutte le navi mercantili britanniche presenti nei porti del regno o lungo le sue coste. (…) Il governo inglese svolse un ruolo fondamentale nella spedizione dei Mille. Prima che i garibaldini giungessero in Sicilia, il contrammiraglio George Rodney Mundy, vicecomandante della Mediterranean Fleet della Royal Navy, ricevette l’ordine di incrociare nel Tirreno e nel canale di Sicilia, effettuando frequenti scali nei porti siciliani, oltre che a scopo intimidatorio, per attenuare la capacità di reazione borbonica. Il luogo dello sbarco non fu casuale: a  Marsala c’era una vastissima comunità inglese coinvolta in grandi affari, tra i quali il più importante era legato alla viticoltura. Alla vigilia dello sbarco l’ammiragliato inglese ordinò che i piroscafi bellici Argus e Intrepid, facessero rotta su Marsala, ufficialmente per proteggere i sudditi inglesi, ma in realtà con lo scopo di favorire l’entrata in rada delle navi piemontesi. I piroscafi Piemonte e Lombardo arrivarono nel porto di Marsala alle 14 in punto, in pieno giorno, e questo dimostra quanta sicurezza avesse Garibaldi, che altrimenti sarebbe sbarcato di notte. L’approdo avvenne  proprio di fronte al Consolato inglese e alle fabbriche inglesi di vini Ingham e Whoodhouse, con le spalle coperte dai piroscafi britannici che, con l’alibi della protezione delle fabbriche, ostacolavano i colpi di granate dell’incrociatore borbonico Stromboli, giunto sul posto insieme al piroscafo Capri e la fregata a vela Partenope. Difesi dagli Inglesi, Garibaldi e i suoi Mille sbarcano sul molo nell’indifferenza dei marsalesi. Il 13 maggio Garibaldi occupò Salemi, stavolta nell’entusiasmo, perché il barone Sant’Anna, uomo potente del posto, si unì a lui con una banda di picciotti. A Salemi Garibaldi si proclamò Dittatore della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele re d'Italia. Il 15 Maggio si combatté la storica battaglia di Calatafimi, se  il 15 maggio 1860 Garibaldi avesse perso, l' epopea dei Mille sarebbe finita lì, a due passi dalle rovine di Segesta. Le soverchianti truppe borboniche guidate dal generale Landi stavano per avere la meglio sulle camicie rosse, stremate e senza più cartucce, mentre il generale Nino Bixio proponeva una ritirata Garibaldi pronunciò la celebre frase: "Qui o si fa l'Italia o si muore". A quel punto accadde l' incredibile: i soldati del re borbone abbandonarono le loro postazioni e si diressero verso Palermo. L’Italia si fece ma la domanda rimane: perché un esercito ben addestrato se la svignò a gambe levate davanti a dei giovanotti stanchi morti e male armati?
Dopo Calatafimi, Garibaldi, s’inoltrò nel cuore della Sicilia mentre le navi inglesi, sempre più numerose, ne controllavano le coste, seguendo in parallelo per mare l’avanzata delle camicie rosse su terra. Garibaldi entrò a Palermo rafforzato da uomini e armi modernissime, quali le carabine-revolver americane Colt e il fucile rigato inglese Enfield. Quando l’eroe dei due mondi passò sul territorio peninsulare, le navi inglesi continuarono a scortarlo dal mare fino al suo ingresso a Napoli. Il 26 ottobre 1860 si concluse  la grande avventura delle camicie rosse. La storia risorgimentale dà molta enfasi all’incontro di Teano, fra tante discordanze e fantasie, tutti sono concordi nel fatto che nella mattinata del 26 ottobre, fra Caianello e Teano, Garibaldi consegnò l'Italia Meridionale a Vittorio Emanuele, ricevendone in cambio solo una stretta di mano.
Nella storia che portò all’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte non ci  fu nulla di eroico. L’Unità fu fatta per un progetto espansionistico dei Savoia, della nobiltà e dell’alta borghesia piemontese, sostenuto dall’Inghilterra e dalla Francia.  Si trattò di avvenimenti ben compendiati dal famoso motto di Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo: “Che tutto cambi perché niente cambi”. Dalla spedizione dei Mille alle plebi meridionali rimase la leva militare obbligatoria, la spogliazione delle risorse, le rivolte contro l’occupazione piemontese, e i moti anti-sabaudi, come quello di Palermo del 1866, repressi nel sangue dai prefetti e dall’esercito piemontesi. Un capitolo di storia che i Sardi avevano giù vissuto. (Angelo Mascia, LA STORIA DELL'ISOLA DALLE VENE D'AGENTO)


PERCHE' I NURAGHI SPUNTAVANO COME FUNGHI IN TUTTA LA SARDEGNA?



Quando nei territori dell’attuale Lombardia gli uomini vivevano ancora di caccia e di raccolta e abitavano nelle palafitte,  mille anni prima che le imbarcazioni dei  Greci solcassero il Mediterraneo, la Sardegna contava già migliaia di nuraghi. Ma perché questi enormi edifici fortificati spuntavano come funghi su coste, pianure, montagne e vie di comunicazione? A determinare la nascita della Civiltà nuragica fu la ricchezza proveniente dalla commercializzazione dell’argento, del rame e del bronzo. Le navicelle in bronzo, che riproducevano le vere imbarcazioni sarde, insieme alle evidenze archeologiche testimoniano forti legami con la Civiltà micenea, la Spagna, l'Italia, con Cipro, il Vicino Oriente e perfino la Bulgaria. Lo sviluppo economico della Sardegna era il più importante di tutto l’Occidente mediterraneo di allora. Ceramiche askoidi, anfore, tripodi e spade di tipo nuragico sono state trovate oltre lo stretto di Gibilterra, a Huelva, Tarragona, Malaga, Teruel e Cadice. Grazie alle relazioni commerciali con altri popoli, i Nuragici avevano a disposizione un ampio ventaglio di merci e prodotti e nel contempo arricchivano il loro patrimonio culturale. Oltre che dall’abbondanza di cibo, il benessere era testimoniato  dalle ceramiche, dagli oggetti di uso quotidiano e dai gioielli di pregevole fattura. In tutti i territori dell’isola vi era  grande disponibilità dei prodotti di base per l'abbigliamento e oltre alla  lana di capre e pecore, si utilizzavano  lino, pelle, cuoio, cui si  aggiungevano i tessuti più pregiati quali il bisso e la porpora. ( Angelo Mascia, LA STORIA DELL'ISOLA DALLE VENE D'ARGENTO)

LA STORIA DELL'ISOLA DALLE VENE D'ARGENTO

                                                            
LA STORIA DELL’ISOLA DALLE VENE D’ARGENTO non è un saggio storico rigorosamente scientifico,  ma va letto come un ‘quasi romanzo’. Ancora oggi  i testi scolastici e buona parte dei libri sulla storia della Sardegna in circolazione riportano la tediosa congerie di fantomatiche  colonizzazioni dell’Isola  in cui abbondano Fenici, Cartaginesi,  Romani, Bizantini, con un via vai di Pisani e Genovesi, Aragonesi e Spagnoli finché con i Savoia c'è il ritorno nell'alveo della civiltà italiana. Nella realtà storica, prima che i Greci solcassero il Mediterraneo con le loro imbarcazioni e 500 anni prima che i Fenici sbarcassero in Sardegna con le loro mercanzie, l’isola contava già 8000 nuraghi. Perché questi enormi edifici spuntavano come funghi su coste, pianure, montagne e vie di comunicazione? Fu la ricchezza proveniente dalla commercializzazione dell’argento, del rame e del bronzo a determinare la crescita economica della Sardegna e la nascita della Civiltà nuragica. Fu l' uomo nuragico a sperimentare che fondendo il rame con lo stagno si poteva ottenere il bronzo, assai più prezioso, buono per oggetti ornamentali e addirittura per adorare le divinità. Tramontata  la stella di Cartagine furono i Romani  ad avviare ad un intesa attività estrattiva con i damnata ad metalla.
LA STORIA DELL’ISOLA DALLE VENE D’ARGENTO diventa così storia di miniera portando il lettore  nel cuore della terra, nelle fucine degli antichi artigiani metallurgici, nei laboratori degli alchimisti arabi che trasformavano le pietre in oro. Abbandonate dagli Spagnoli un seguito all’afflusso dei metalli dal Nuovo Mondo, le miniere sarde furono riattivate quando l'isola passò ai Savoia. In quelli anni la legge delle chiudende e l'abolizione dei feudi incisero  profondamente sull’agricoltura e la pastorizia, ma anche sui rapporti sociali.
Anche l'oro nero di Sardegna, iI carbone del Sulcis, ebbe  il suo momento di gloria allorché diventò elemento di interesse nazionale assurgendo a simbolo del periodo autarchico fra le due grandi guerre. Dopo la Seconda guerra mondiale la Sardegna affrontò un processo di profonda trasformazione, il più radicale mai conosciuto in tutto il corso della sua storia. Questo non significa che fino ad allora la Sardegna fosse vissuta, immobile e immutata, in un tempo statico e indefinito. Nei secoli aveva intrecciato  rapporti con popoli vicini e lontani, molti vennero in pace, altri da dominatori e ciascuno lasciò qualche traccia. Aveva vissuto epoche felici e aveva sofferto soprusi e angherie. I suoi uomini furono mandati a combattere in luoghi lontani, altri partirono per costruire altrove il proprio futuro. Vi restava però, intatto  il senso di appartenenza della sua gente, la sua lingua, gli usi, i suoi miti. In questa terra, dove la leggenda è una cosa sola con la storia, una cavità del suolo può  essere la dimora di una jana, oppure una galleria brulicante di uomini, di donne e di bambini.